“Nella mia esperienza,
il numero degli stati depressivi
è aumentato”
dott.ssa Loredana Vecchi
L’impatto psicologico della pandemia
“Nella mia esperienza, è aumentato il numero degli stati depressivi e d’ansia”. Così la psicologa Loredana Vecchi descrive quanto visto nel suo lavoro durante la pandemia. Quel che racconta non è un caso professionale isolato, né una suggestione dell’esperienza comune, ma un fatto confermato dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità. È infatti chiaro che la salute mentale, definita dall’OMS come “uno stato di benessere in cui ogni individuo realizza il proprio potenziale, è in grado di far fronte agli eventi stressanti della vita, lavorare in modo fruttuoso e contribuire alla comunità” è stata duramente colpita da un anno e mezzo di covid-19. Al momento, sono possibili solo valutazioni parziali degli effetti della pandemia sulla salute mentale, un tema per sua natura poco inquadrabile. Tuttavia, con i dovuti limiti, l’aumento dell’uso di psicofarmaci e dei casi di insonnia delineano già una prima immagine di un fenomeno che è e sarà sempre più oggetto di studio e interventi negli anni a venire.
L’uso di psicofarmaci in Italia:
il quadro pre-pandemia in pillole
Tra vari indici per valutare lo stato di benessere mentale di un paese,
uno significativo è il consumo di psicofarmaci.
Questo ampio insieme accoglie tutte quei farmaci che hanno effetti sul
sistema nervoso centrale, come gli antidepressivi, usati per i disturbi dell’umore,
gli antipsicotici, per le forme di psicosi, e le benzodiazepine, la
cura più comune per i problemi di ansia e insonnia.
Secondo il rapporto
Health at Glance dell’UE, l’Italia è un paese
sotto la media europea per diffusione di problemi legati alla salute mentale,
una tendenza che si riflette anche in un uso di psicofarmaci non elevato.
Per esempio, nel 2018 il consumo di antidepressivi in Italia era soltanto
due terzi della media OECD
(calcolata su 25 stati che utilizzano lo stessa unità di misura).
Nonostante questo, i dati
OsMed (l'Osservatorio nazionale sull'Impiego
dei Medicinali di AIFA) mostrano un leggero aumento dell’uso di tutti
i principali psicofarmaci negli ultimi 5 anni prima della pandemia.
I consumi sono misurati nello standard ddd/1000 ab die, abbreviato in ddd
(defined daily dose), che corrisponde alle dosi di medicinale prescritte,
e quindi con approssimazione assunte, in un giorno ogni 1000 abitanti.
Il consumo di psicofarmaci
Le benzodiazepine
Le benzodiazepine (bdz) si sono confermate ogni hanno lo psicofarmaco più comune
e hanno visto una crescita dei consumi del 24,5% dal 2015 al 2019,
in cui hanno quasi toccato le 50 dosi giornaliere.
La loro diffusione deriva per OsMed da più fattori:
la crescita delle patologie legate allo stress, l’abitudine all’idea
di risolvere i problemi ricorrendo subito a queste sostanze,
ma anche controlli limitati e valutazioni del paziente
non sempre attente da parte dei prescrittori.
Più in dettaglio, l’uso delle bdz diviso per categoria farmaceutica
è composto per metà abbondante da ansiolitici, quasi il 40% di ipnotici,
e la restante parte in sedativi.
La “popolarità” dei primi due tipi di benzodiazepine
risulta ancor più evidente se calata nel contesto dei farmaci di classe C
(quelli a spesa a totale carico del cittadino) con ricetta.
In questo insieme, nel 2019, ansiolitici e ipnotici (che combinano oltre il 90%
delle bdz) sono state le prime due categorie farmaceutiche più prescritte,
con, rispettivamente, 25 e 20 dosi giornaliere. Gli ansiolitici sono stati
anche il farmaco di classe C a maggior spesa, davanti a prodotti richiesti
come le pillole contraccettive (associazioni fisse estro progestiniche) o
i farmaci per la disfunzione erettile. Il loro acquisto, sommato a quello
delle bdz ad effetto ipnotico, ha combinato quasi 500 milioni di euro.
L’analisi di OsMed mette inoltre in luce tre chiare tendenze nel consumo
delle bdz. La prima è la prevalenza d’uso tra le donne,
la seconda un gradiente di diffusione crescente da Sud a Nord. Non trova quindi
riscontro l’idea che a peggiori condizioni socioeconomiche sia associato un maggior
disagio psichico. Pare invece che i contesti con economie più produttive, quindi
più competitivi, dell’Italia centro-settentrionale rendano più comuni disturbi di
ansia, insonnia e depressione. Tuttavia, in assenza di preziose informazioni di
contesto, qualunque interpretazione deve essere cauta. Bisogna infatti ricordare
che i dati di OsMed riguardano le prescrizioni di psicofarmaci, quindi non coprono
tutti quei casi in cui i disturbi psichici sono trattati in altro modo, ad esempio
con la sola terapia.
La terza e ultima visibile tendenza riguarda la crescita dell’uso di psicofarmaci in
proporzione all’età: sono gli over 65 ad avere consumi molto elevati rispetto alla
tra
scarsissima diffusione tra i giovani. Eppure, la pandemia sembra aver cambiato anche
questo.
Il primato degli ansiolitici tra i farmaci di classe C
Nuove richieste di terapia e psicofarmaci
Questa era la situazione prima del 2020. Ad oggi,
come detto, non è ancora possibile descrivere con
precisione gli effetti di quella che i media più allarmisti
hanno chiamato “psicopandemia”. Ma l’insieme di fattori come
il lockdown, l’impossibilità di lavorare, la paura dell’esposizione
di sé o dei propri cari al contagio ha senza dubbio lasciato tracce
sulla salute mentale delle persone, alcune già visibili.
Recentemente, SIP (Società Italiana di Psichiatria)
e CNOP (Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi) hanno denunciato la
mancanza di personale e investimenti nei servizi psicologici e
psichiatrici a fronte di una crescente richiesta da parte della popolazione,
soprattutto giovane. Questo sentito bisogno di terapia durante l’emergenza
sanitaria è stato osservato direttamente anche dalla psicologa Loredana Vecchi.
“C’è stata una maggior richiesta di aiuto - ha raccontato la dottoressa -
soprattutto tra i ragazzi. La mancanza della presenza dal vivo, del gruppo,
dello scambio di contatto fisico e possibilità di identificazione ha creato disagi,
in particolare in chi già aveva difficoltà nel gestire gli equilibri difficili
dell’adolescenza”.
L’esposizione di queste fragilità, secondo il presidente della SINPF
(Società Italiana di Neuropsicofarmacologia) Claudio Mencacci, ha avvicinato
i giovani all’uso di psicofarmaci. In
un'intervista per HuffPost, Mencacci ha
spiegato che questo tipo di medicinali non va demonizzato né idealizzato.
L’uso prescritto e monitorato da uno specialista risulta infatti efficace,
mentre i metodi “fai-da-te”, ovvero le assunzioni in casi non necessari e
non controllati, spesso da passaparola, comportano gravi rischi di dipendenza.
Non è un caso che la dottoressa Vecchi, nel raccontare di aver prescritto più
ansiolitici e antidepressivi nel 2020, abbia voluto fare un’importante precisazione:
“le nuove prescrizioni sono avvenute soltanto alla ripresa delle terapie in
presenza, mai per telefono”. Le sedute a distanza, con le loro limitate possibilità
di comunicazione, non erano infatti adatte per prendere decisioni professionali
delicate come l’avvio di un trattamento con psicofarmaci.
Anche se il quadro del consumo psicofarmacologico non è ancora nitido,
il
monitoraggio dell’uso di farmaci durante l'epidemia COVID-19 di AIFA
ha registrato i quantitativi di ansiolitici ordinati dalle farmacie mese
per mese (ddd ogni 100000 abitanti). Considerando lo stretto rapporto tra
offerta e domanda, questo indice risulta comunque di interesse per raccontare
lo stato di stress della popolazione. Il visibile aumento delle ordinazioni di
ansiolitici dal 2019 al 2020 non è infatti stato casuale, ma ha anzi seguito l’
l'evoluzione della pandemia.
Dopo aver avuto valori simili in gennaio, le curve degli ansiolitici di 2019 e 2020
hanno registrato la maggior distanza tra febbraio e aprile: le ordinazioni in marzo 2020
sono aumentate del 19% rispetto a marzo 2019, toccando il picco di 12,45 ddd/100000 proprio
per l’inizio di lockdown. Inoltre, se agosto è stato in entrambi gli anni il mese più “rilassato”,
l’offerta di ansiolitici ha preso di nuovo andamenti opposti in autunno: è rimasta resta pressoché
costante nel 2019, mentre è salita nel 2020 (aumento intorno al 10% in novembre e dicembre), probabilmente
a causa della seconda ondata di contagi.
L'aumento delle ordinazioni degli ansiolitici nelle farmacie
Il sonno incerto durante il lockdown
Se sono aumentati gli psicofarmaci, lo stesso deve valere
per i disturbi che trattano, come ad esempio l’insonnia.
Una scarsa qualità del sonno è infatti causalmente connessa
con fattori di stress, ansia e preoccupazione, ed estende i
suoi disagi non solo al periodo notturno, ma anche a quello della veglia,
durante il quale non è rara la manifestazione di affaticamento e disturbi
dell’umore. Una
ricerca svolta in collaborazione tra diversi centri universitari
di Roma e Freiburg ha infatti confermato l’impatto della pandemia sui casi di
insonnia.
Attraverso un sondaggio somministrato dal 1 aprile al 4 maggio 2020
(termine del lockdown), lo studio ha monitorato un campione di quasi
2000 persone maggiorenni che hanno trascorso la quarantena in Italia.
Tra i partecipanti, i disturbi del sonno registrati prima della quarantena
sono rimasti costanti, mentre molti nuovi casi d'insonnia si sono manifestati.
I problemi di sonno sono stati classificati per punteggi in lievi, di soglia,
moderati e gravi.
Su un campione di 56 persone colpite da insonnia grave durante la quarantena,
il 57% non ne aveva mai sofferto prima. Mentre sui 314 casi di insonnia moderata,
la percentuale di chi ha iniziato ad avere problemi di sonno dopo il lockdown ha sfiorato il 70% .
“L’insonnia da quarantena” sembra inoltre aver colpito soprattutto i giovani. Gli intervistati
tra i 18 e 30 anni erano infatti solo un terzo del campione, ma oltre il 41% dei casi di insonnia
sia moderata che grave. Un dato che conferma i pareri di SINPF e della dottoressa Vecchi: costretti
al distanziamento sociale in un’età di già difficili equilibri mentali, i giovani sono stati una delle
categorie messe più alla prova dall’emergenza sanitaria.
La percentuale dei nuovi casi di insonnia
La percezione della crisi
Infine, un ultimo modo per raccontare l’impatto psicologico della pandemia è
osservare come la presenza del virus sia stata percepita dai cittadini.
In particolare, l’andamento delle preoccupazione per covid-19 è stato monitorato,
con cadenza più o meno settimanale, da
IPSOS, una multinazionale di ricerche di
mercato che offre, tra le altre cose, la possibilità di partecipare a sondaggi su
piattaforma digitale. Con un mercato in 90 paesi e un’equipe che conta più di
diciottomila persone, IPSOS ha fotografato in un campione di 1000 intervistati
le preoccupazioni per il covid-19.
Lo stato d’animo degli italiani nel 2020 si è adeguato all’andamento della
curva epidemiologica, confermando picchi di sconforto e sfiducia in corrispondenza
dell’emanazione dei decreti più limitanti e dei momenti più seri della crisi
sanitaria. Alla domanda “consideri il coronavirus una minaccia?”, le persone
hanno inoltre dimostrato di percepire il pericolo del virus molto più a livello globale
che individuale.
A inizio marzo, poco più di un quinto dei partecipanti al sondaggio considerava
il covid-19 un pericolo per se stesso, mentre già la metà lo riteneva una reale
preoccupazione per il mondo. Con la primavera però, la percezione del virus come minaccia
è aumentata vertiginosamente: a fine aprile quasi il 90% del campione era preoccupato dalla
situazione globale, mentre più della metà temeva il virus anche per se stessa. L’arrivo della
bella stagione ha poi fatto calare le misure di sicurezza così come lo stato di allerta,
con appena una persona su tre che si considerava a rischio individuale. Infine, dopo la relativa
tranquillità estiva, le preoccupazioni sono nuovamente montate in autunno per la seconda
ondata di contagi, per poi vedere un leggero calo e rimanere pressoché costanti
fino al maggio 2021. L’avvio della campagna vaccinale sta ormai facendo pensare
che il peggio sia alle spalle.